A cura di Miriam Mastrovito
Non si smette di essere piccoli tutto a un tratto, con una grande
esplosione, come uno di quei palloncini pubblicitari con gli slogan. Il bambino
che hai dentro cola fuori, trapela come aria da una foratura di una gomma. E un
giorno ti guardi allo specchio e ti trovi faccia a faccia con un adulto. Puoi
continuare a portare i blu jeans, puoi
continuare ad andare ai concerti di Springsteen e Seger, ti puoi tagliare i
capelli, ma la faccia che c’è nello specchio è lo stesso quella di un adulto.
Ed è successo tutto mentre dormivi, forse, come la visita della fatina dei
denti.
Tra le numerosissime opere del Re, It è sicuramente una delle più rappresentative, un must per
chiunque desideri avventurarsi nel suo universo letterario e cominciare a
comprenderlo.
Mastodontico. È questo il primo aggettivo che viene in mente
accostandosi al romanzo ma a renderlo tale non sono tanto le 1238 pagine che lo
compongono quanto i molteplici significati e i diversi livelli interpretativi a
cui si presta. It è un horror magistrale,
in grado di turbare il sonno dei lettori, ma è anche un capolavoro di
introspezione psicologica e un toccante omaggio all’età dell’innocenza.
A dispetto della sua mole si regge su una trama tanto
semplice da risultare quasi banale a un primo impatto, caratteristica questa
che connota buona parte della produzione Kinghiana e che, paradossalmente, ne
rappresenta uno dei suoi maggiori punti di forza. Uno dei più grandi pregi di
King consiste infatti nella sua capacità di maneggiare un esiguo filo narrativo
annodandolo, intrecciandolo, tendendolo come fosse un elastico, fino a
ricavarne un ordito fittissimo di suggestioni.
Immaginate una piccola cittadina sperduta nel Maine e
ponetevi questa semplice domanda:
Può un’intera città
essere posseduta?
Posseduta come si dice
che siano certe abitazioni?
Non una singola casa
in quella città, o l’angolo di una determinata via, o quell’unico campo di
pallacanestro in un certo piccolo giardino, con il cerchio privo di rete che si
staglia al tramonto come un oscuro e insanguinato strumento di tortura, non
solo una zona, ma tutto. La città nella sua interezza.
Ebbene è questa la semplicissima intuizione a partire dalla
quale si sviluppa la storia. Nelle fogne di Derry si annida una creatura
mostruosa e multiforme che, a intervalli regolari, si risveglia per chiedere il
suo tributo di sangue. Un gruppo di sette bambini si ritrova ad affrontarla e
sconfiggerla nell’estate del ’58 ma a distanza di ventisette anni, It – questo
il suo nome – torna a minacciare la
città. I ragazzini sono ormai adulti,
vivono tutti lontano da Derry a eccezione di Mike Hanlon che è rimasto lì. Sarà
lui a rintracciarli e a richiamarli a casa perché mantengano un’antica
promessa.
Fin qui nulla di eccezionale. Eppure tuffandosi tra le
pagine si comprende subito che il nucleo narrativo è solo la punta di un
iceberg. Seguendo le tracce dei protagonisti divenuti adulti ci si ritrova
catapultati nella lontana estate della loro infanzia. La rigogliosa vegetazione
dei Barren − nettamente in contrasto con il nome che significa “brullo” −
raggiunge i sensi del lettore con i suoi colori e odori, in sottofondo si ode lo
sciaguattio del Kenduskeag mentre il vociare di sette amici si intensifica
risvegliando le sensazioni tipiche di vivacità e libertà che connotano la
stagione delle vacanze.
Alle immagini horror degli omicidi perpetrati da It si
sovrappongono così quelle più scanzonate e nostalgiche che narrano di giochi
all’aria aperta, nuove amicizie, primi innamoramenti ma anche di disagi e
violenze in atto tra le mura domestiche. Non sono bambini fortunati quelli
raccontati da King, sono piuttosto dei diversi, degli esclusi.
Bill Denbrough ha perso il fratellino George di soli sei
anni per mano di It. Il trauma gli ha provocato una grave forma di balbuzie e
ha portato il gelo nella sua famiglia. Dal giorno del tragico omicidio, i
genitori, straziati dal dolore, si sono chiusi in se stessi dimenticando quasi
di avere un altro figlio. Ben Hanscom è obeso, Eddie Kasbrak soffre d’asma e deve fare i conti con una
madre iperprotettiva, Stan Uris e Mike Hanlon sono emarginati l’uno perché
ebreo, l’altro per il colore della sua pelle, Richie Tozier è costretto a
guardare il mondo attraverso delle spesse lenti che gli valgono il soprannome di
quattr’occhi, mentre Beverly Marsh, unica ragazzina del gruppo, vive in una
condizione di disagio economico e quotidianamente subisce le violenze del padre
che la mette in riga a suon di botte. Tutti sono accomunati dal fatto di essere
dei perdenti ma nel momento in cui si incontrano e si riconoscono come tali, la
loro debolezza diviene anche il loro punto di forza. Se presi singolarmente
sono destinati a soccombere, insieme sono in grado di superare qualsiasi
ostacolo, possono affrontare il terribile trio di bulli formato da Henry
Bowers, Belch Huggins e Victor Criss e reggere il confronto con il mondo degli
adulti che, lungi dall’essere rassicurante, si rivela ostile.
“Proprio non li
capisco.” − dichiarerà a un cero punto la signora Tozier − “Dove vanno, cosa vogliono e… cosa sarà di
loro. Certe volte, oh sì, certe volte i loro occhi sono strani e certe volte ho
paura per loro e certe volte ho paura di loro…”
I Perdenti riuniti in un club eleggeranno i Barren come loro
territorio. Quel luogo distante e inesplorato diventerà una sorta di zona
franca in cui potersi rifugiare per leccarsi le ferite e sognare. Lì dove i grandi non sono ammessi, c’è spazio per sentirsi
liberi e infrangere le regole. Lì i piccoli possono fumare e dire parolacce ma
soprattutto esprimere le loro paure senza timore di non essere presi sul serio.
Una buca scavata nel terreno, specchio della più classica casetta sull’albero,
diventerà una base segreta in cui mettere a punto un piano per combattere It.
Non è un caso che i prescelti per condurre questa battaglia
siano dei bambini. It è una creatura mostruosa che ci ciba di paura, un Malia,
capace di attingere dall’immaginario del singolo e di modellarsi sui suoi
fantasmi personali. Gli adulti che hanno perso la capacità di sospendere l’incredulità
hanno poca carne da offrire in pasto a un mostro simile, loro possono piangere
i morti, arrovellarsi per cercare un colpevole tra gli umani ma non possono
scorgere la verità. Pennywise il clown ai loro occhi è invisibile.
Così come non possono vedere il nemico, i grandi non sono
equipaggiati per sconfiggerlo. Ancora una volta la chiave risolutiva è da
rintracciarsi nel potere immaginifico di cui i bambini sono indiscussi signori.
Una fionda, un inalatore per l’asma, una polverina che fa starnutire, un
dollaro d’argento e uno stravagante rito pescato in un libro sugli indiani,
saranno queste le armi con cui sconfiggere il male, strumenti inaccessibili per
una mente adulta.
La più grande sfida per i Perdenti si profila, infatti,
proprio quando sono chiamati ad affrontare It per la seconda volta. Nel 1985
non sono più bambini, si sono trasformati esattamente in coloro che hanno
sempre temuto e, cosa ancor più grave non ricordano più.
“Siamo cresciuti.”
− constata Bill con amarezza − “Non
pensavamo che sarebbe successo. Non allora, non a noi.
L’acquisizione di questa consapevolezza rappresenta
un’esperienza terrificante − più di qualsiasi babau nascosto nell’armadio − ma
anche il punto da cui partire per esorcizzare il demone di una definitiva
sconfitta.
Recuperare la memoria di ciò che si è stati, riconquistare
la capacità di esercitare l’immaginazione e di credere nei sogni. Ecco il
segreto per uccidere It, ecco il potentissimo messaggio che si annida nelle
oltre mille pagine vergate da Re.
L’intero romanzo può essere letto come una metafora del
passaggio dall’età infantile a quella adulta. La paura, emozione cardine, si
esprime così a un duplice livello. Da un lato King ci mostra con grandissima
efficacia il suo volto più classico, quello più immediatamente riconducibile
all’idea comune di horror: è il terrore che passa attraverso il sorriso
inquietante di Pennywise e delle molteplici
manifestazioni di It (mummia, licantropo, lebbroso, libro sanguinante, ragno
gigante…); l’orrore che si palesa attraverso il perpetrarsi di efferati omicidi
e che si annida in maniera insidiosa nella più spaventosa immagine di una città
interamente infestata. Dall’altro lato emerge, invece, una forma di paura meno
eclatante nella sua manifestazione ma universalmente condivisibile: quella di
diventare grandi e di perdere un pezzo di se stessi con lo sbiadire della
memoria.
It ci conferma che la paura ha zanne affilate e occhi brace
ma nel contempo ci invita ad aguzzare lo sguardo perché è più vicina di quanto
si possa presumere. Essa è dentro di noi, nei nostri traumi e nei nostri sogni,
nel desiderio di crescere e nel timore di non restare bambini, è sotto il letto
ma la portiamo nel cuore e, a volte, è persino leggera… leggera come palloncini
che volano trascinando i ricordi controvento.
Sono senza parole! Bellissimo post su questo capolavoro del grande e inimitabile King :)
RispondiEliminaE' vero, hai descritto magnificamente questo capolavoro!
RispondiEliminamolto molto bello questo post!
RispondiEliminaoggi inauguriamo la lettura collettiva di "Il curioso caso di Benjamin
Button", se ti va di partecipare ^_^
http://locandalibri.blogspot.it/2012/10/leggiamo-insieme.html
Concordo con tutti voi, quest'articolo è scritto benissimo, approfondito ed esaustivo. Non ho parole per descrivere la bravura dell'autrice, solo l'ennesimo COMPLIMENTI!
RispondiEliminaPS: IT è un romanzo magnifico che andrebbe letto almeno una volta nella vita. Pennywise si è intrufolato nei miei sogni per diverse notti durante e dopo a lettura.
PSS: Bellissima anche l'immagine con la testa di IT in mezzo a tutti quei palloncini rosso sangue. La imposto come sfondo del Dekstop per Halloween!
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