A cura di Miriam Mastrovito
Nell'immaginario collettivo Stephen King e il terrore
viaggiano a braccetto. Sebbene l’etichetta di scrittore horror sia restrittiva
per questo autore che, nel corso degli anni, si è rivelato eclettico proponendo
spesso interessanti commistioni di generi e cavalcando l’onda del fantastico in
senso lato, è innegabile che l’appellativo di “Re del brivido” gli calzi a
pennello. D’altra parte egli stesso ritiene impossibile tracciare una
netta linea di demarcazione tra fantasy, fantascienza e horror. Si tratta infatti
di generi accomunati dal tentativo di creare mondi che non esistono, o non
possono esistere, e i confini tra l’uno e l’altro risultano molto labili. L’orrore
può scaturire dall’incontro con un mostro così come può giungere dallo spazio,
può affondare le sue radici nel soprannaturale ma può anche essere scientifico.
A connotarlo è fondamentalmente la paura, sentimento che lui
scandaglia abbondantemente nella sua opera e che, al pari di uno scaltro
prestigiatore – o se preferite di uno psicologo sopraffino – destreggia con
abilità declinandolo in tutte le sue molteplici sfaccettature.
Ma in che modo un romanzo o un racconto può centrare
l’obiettivo di turbare il sonno del lettore?
Nel suo saggio Danse
Macabre(1981), King distingue tre diversi livelli attraverso cui può
esprimersi la paura. Il primo livello, quello più “grossolano”, coincide con il
sentimento di repulsione. A scatenare il terrore in questo caso è l’impatto con
un’immagine forte e raccapricciate, l’elemento splatter. Il secondo livello corrisponde
al sentimento di orrore, provoca una reazione fisica mostrandoci qualcosa di “sbagliato”,
come potrebbe esserlo un fantasma o un vampiro, senza necessariamente ricorrere all'esibizione del sangue o di interiora rivoltate. Il terzo livello, invece, è
quello del terrore fine che irretisce
senza bisogno alcuno di mostrare qualcosa di tremendo. È quel sentimento che
Freud chiama perturbante e che
insorge quando una cosa, una situazione, una persona ci appare familiare ed
estranea allo stesso tempo. È una sorta di punto di rottura, un elemento
dissonante che irrompe nella realtà provocando un senso di smarrimento, è lo
strano rumore proveniente dal vostro armadio nel cuore della notte, per
intenderci. Per dirla con le parole di King, il terrore fine, si ha quando “una storia dell’orrore riesce a unire
il conscio e il subconscio attraverso una sola, potente idea”. A tale
proposito, l’autore, riferisce un aneddoto biografico per meglio esplicitare il
concetto.
“Per me il terrore – il vero terrore, ben diverso da tutti i
demoni e gli orchi che avrebbero potuto vivere nella mia mente – cominciò un
pomeriggio di ottobre del 1957. Avevo appena compiuto dieci anni. E, come era
giusto che fosse, mi trovavo al cinema […]” Così racconta proprio in apertura
del succitato saggio. Il film proiettato in sala era La Terra contro i dischi volanti, ma a scatenare il sentimento di
paura nel piccolo Steve non furono gli alieni maligni della pellicola, bensì la
brusca interruzione della stessa, attuata dal direttore di sala per annunciare
che i russi avevano messo un satellite spaziale in orbita intorno alla terra:
lo spootnik. È nello schermo nero, in quello strappo improvviso e sconosciuto, nell'imprevedibilità di quell'evento che King colloca l’esperienza del
terrore. È il buio che inghiotte le immagini in un momento inatteso, il non
sapere chi e perché ha fermato il film, cosa può nascondersi dietro quel gesto
insolito a provocare la paura.
Rimanendo nella metafora, si può affermare che di schermi
neri la produzione letteraria del Re è piena e, forse, è proprio a questo che
si deve buona parte del suo successo.
Egli non rinuncia a nessuno dei tre livelli sopra descritti,
in diversa misura sono tutti rintracciabili nei suoi scritti. Non mancano le
descrizioni splatter, sebbene non ne abusi. L’immagine di It spogliatosi dei
panni di Pennywise nelle fogne di Derry, il raccapricciate parto di Susannah ne
La torre nera o i macabri pasti del
protagonista de La zattera che per
sopravvivere su un’isola deserta arriva al punto di mutilarsi e cibarsi del suo
stesso corpo ne sono solo un piccolissimo esempio. Allo stesso modo, non
mancano i tipici archetipi dell’immaginario horror che la fanno da protagonisti
in diversi dei suoi libri. Dai vampiri de Le
notti di Salem, ai ritornanti di Pet
Sematary, passando per il Diavolo di Cose
preziose, King ci propone un vasto campionario di creature soprannaturali
in grado di suscitare orrore. A contraddistinguere più di tutto la sua
vastissima produzione, tuttavia, è il terrore
fine che costantemente si connota come elemento imprescindibile delle sue
storie. Diversi sono i romanzi in cui King punta tutto sul perturbante
lasciando scaturire l’orrore da situazioni eccezionali eppure probabili o
mettendoci al confronto con mostri
che non hanno zanne né artigli affilati ma non di meno ci terrorizzano. Basti
pensare a Annie Wilkes di Misery, una
donna assolutamente innocua nell’aspetto e tanto gentile da prestare soccorso a
un uomo in difficoltà che però si tramuterà in una spietata carnefice; a Thad Beaumont
de La metà oscura che similmente al
Mr Hyde di Stevenson, convive con un terrificante gemello o al Jack Torrance di Shining
che da padre amorevole si tramuta in feroce assassino. Questi sono solo alcuni
dei suoi personaggi più celebri, ma si potrebbero attingere moltissimi altri
esempi simili da opere come Rose Madder,
Mucchio d’ossa, L’occhio del male, Dolores
Claiborne, Duma Key… e l’elenco
si potrebbe protrarre oltre. Del resto anche prendendo in esame romanzi come It in cui il mostro, inteso nella sua
accezione più comune, è presente e ha un aspetto oltremodo raccapricciante ad
atterrire davvero il lettore è qualcosa di diverso. Chiunque abbia letto il
libro o abbia visto la sua trasposizione cinematografica, potrà testimoniare
che a rimanere impressa e a scatenare gli incubi più neri non è l’immagine
della rivoltante creatura che si palesa nelle fogne, ma quella del pagliaccio
che si affaccia dal tombino offrendo i suoi palloncini colorati.
Stabilito cosa e come può farci paura, rimane ancora un interrogativo
su cui vale la pena riflettere prima di concludere questa breve escursione nell'universo Kinghiano.
Perché tutto ciò al lettore piace? Perché ama intrattenersi
con storie che provocano un senso di disagio?
È un interrogativo su cui King si è soffermato in più
occasioni ma probabilmente, è nella sua prefazione alla raccolta A volte ritornano che in maniera quanto
mai chiara e univoca ci suggerisce la sua personale risposta. La molla che
spinge ad accostarsi all’horror è la stessa che induce l’automobilista a
rallentare in prossimità di un incidente stradale per vedere le vittime. Non si
tratta di un istinto raro o perverso. Il cadavere sotto il lenzuolo ci
ricorda la nostra caducità, risveglia in
noi la consapevolezza di avere a nostra volta un appuntamento con l’Oscura
Signora a cui non potremo sottrarci e che rappresenta la summa di tutte le
paure umanamente concepibili. L’atto di sollevare il lenzuolo e sbirciare sotto
rappresenta una sorta di prova generale di quell'esperienza terrificante e
ineludibile di cui un giorno saremo protagonisti. L’horror fondamentalmente ci offre
un modo per venire a patti con ciò che ci terrorizza. Ma non solo questo. Un
racconto dell’orrore può aiutarci ad esorcizzare la paura ma anche permetterci
di esercitarla, o meglio, di esercitare quelle emozioni che la società ci
impone di tenere sotto controllo. Da questo punto di vista svolge dunque una
funzione liberatoria.
Perché il meccanismo funzioni è indispensabile il
raggiungimento di quello stato d’animo definito “sospensione dell’incredulità”.
Da una parte è necessario che l’autore sia tanto abile da non farci scorgere la
cerniera lampo sulla schiena del mostro, dall’altra però occorre che il lettore
sia adeguatamente allenato o predisposto.
“L’incredulità” – spiega King in Danse Macabre – non è come
un pallone, che può essere sospeso in aria con uno sforzo minimo; è come un
peso di piombo, e deve essere alzato e tenuto su con la forza. L’incredulità
non è leggera, è pesante.”
Il lettore ideale di horror (e di narrativa fantastica in
generale) è quindi colui i cui muscoli dell’immaginazione sono sufficientemente
allenati, così come lo sono quelli dei bambini che, a giudizio del Re, sono dei
veri e propri prestigiatori dell’invisibile.
A questo punto non vi resta che mettervi alla prova per
scoprire quanto allenata sia la vostra mente e fino a che altezza siete capaci
di arrivare.
Tutto vero ciò che è scritto, anche se non sono tanto appassionato del genere, devo dire che ha perfettamente ragione king!
RispondiEliminaOvvio, lui è il Re! ;D
EliminaArticolo curato, ben scritto e approfondito. davvero tanto di cappello a Miriam. Ho letto molti libri del Re e posso tranquillamente affermare che ognuno di essi è una piccola perla che definire horror è quasi sminuente.
RispondiEliminaIo non ho ancora letto granché del Re, ma posso dire che la tua opinione è ben diffusa :D
EliminaQuesto articolo è davvero fantastico! Ti dico solo che Stephen King è stato il mio primo amore all'età di 12 anni con Cujo e Pet Sematary (giuro che non ero una bambina che strappava le ali alle farfalle!) e da allora non ho mai smesso di leggerlo!
RispondiEliminaHo un premio per il blog qui http://libridilo.blogspot.it/2012/10/premio-simplicity.html
Ciao :)
Piccolo premio per il vostro blog: http://mycaffeletterario.blogspot.it/2012/10/premio-simplicity.html
RispondiEliminaUn abbraccio!
Ottimo articolo Miriam! ;)